martedì 26 marzo 2019

Giulia


La sorella maggiore, 1869, di William-Adolphe Bouguereau





Giulia
di Erica Baldaro
Il racconto ha vinto questo concorso qui.





Certo che vuole bene a Giulia. Che domande. Giulia è una così brava sorella. Giulia è quel genere di sorella che, quando la chiami perché l’autobus ha saltato la corsa e tu sei dall’altra parte della città e di tornare a piedi non se ne parla, molla tutto quello che sta facendo e ti viene a prendere in macchina. E Giulia non ti chiede mica indietro la benzina perché, ma va’, figurati, mi fa piacere, tu faresti lo stesso per me, e invece no, no che lei non lo farebbe, prima di tutto perché a lei i suoi genitori la macchina non la lasciano mica – non si fidano come si fidano di Giulia, e solo perché una volta, una, okay, forse due, ma capita a tutti prima o poi di sbocciare la macchina, e se lo avesse fatto Giulia, a Giulia avrebbero detto non c’è problema, Giugiù, succede a tutti, e tutte le volte che le dicono non c’è problema, Giugiù, con le labbra protese come a schioccare un bacio, Giugiù, Giugiuuù, lei vorrebbe vederla cadere dai tacchi alti, la bella caviglia che si piega sotto il peso del corpo, che si gonfia e si annerisce come un frutto marcio.

Ma certo che vuole bene a Giulia. Tutti vogliono bene a Giulia. Giulia sorride sempre, non quel genere di sorriso che ogni tanto suo padre a tavola le dice ma che ti ridi, sempre a ridere al cellulare, sempre a fare la scema. No, Giulia ha quel sorriso aperto che mette in mostra i denti dritti e bianchi che non hanno mai visto l’apparecchio, l’apparecchio che una volta lei si è tolta per cinque minuti al Mc, lo ha appoggiato sul tavolino o forse sul vassoio che era tutto pieno di fazzolettini usati e scatole vuote, e si è accorta di non averlo più quando ormai erano già in macchina e quando sono tornati indietro non c’era più e i suoi le hanno fatto una scenata per l’apparecchio scomparso, ma non lo sai quanto costa, non stai mai attenta alla tua roba. Non come Giulia, Giulia non rovina mai niente, Giulia tiene in ordine camera sua, Giulia conosce il valore delle cose, ma mica le può andare sempre tutto bene, prima o poi le cadrà di mano qualcosa, un bicchiere, prima o poi, il bicchiere cade e si rompe in mille pezzi taglienti e Giulia calpesta una scheggia con il piede nudo e affusolato e il vetro le si conficca nel tallone, nella pianta liscia, il sangue comincia a sgorgare e forma una pozza viscida, Giulia scivola e

No, davvero, vuole bene a Giulia. Giulia è onesta e non ha mai paura di dire quello che pensa. Tutti ascoltano quello che ha da dire Giulia, persino loro padre, che non ascolta mai nessuno, ma Giulia sì, perché lei è Giulia. E anche la mamma ascolta sempre Giulia, Giulia dice sempre la verità, Giulia non ha mai bisogno di nascondere le cose, non come lei che le sigarette, e quella volta che ha bigiato, e quel brutto voto, quei brutti voti, quei voti terribili, e te lo giuro, mamma, la prof ce l’aveva con me, sì, come no, ce l’hanno tutti con te, la povera vittima, com’è che a Giulia invece è andato tutto bene e aveva la stessa prof, non lo so, non lo so, non lo so perché a Giulia va sempre tutto bene e non le succede mai di inciampare sulle scale, il tacco che si appoggia nel vuoto mentre sale, il peso della testa che trascina in basso tutto il corpo, le mani che annaspano cercando il corrimano ma è troppo lontano, la schiena sbatte sul bordo affilato dei gradini, la nuca si schianta, un toc pieno e pesante che le fa sbattere i denti e la

Veramente, veramente vuole bene a Giulia. Basta dire il suo nome, Giulia, e tutti sanno, tutti capiscono, tutti la ricordano, tutti sorridono, ah certo, GIULIA, che cara ragazza, che studentessa straordinaria, troppo forte Giulia, ma tu sei la sorelladigiulia? La sorellina di Giulia, anche se è più grande lei, la sorellinadigiulia, che strano, perché Giulia a scuola era così – ma anche tu, sorelladigiulia, probabilmente anche tu hai, sei, siete… perché, perché non puoi essere un po’ più comegiulia! Come Giulia, il corpo scomposto in fondo alle scale, la testa schiacciata contro il muro che costringe il collo a una piega innaturale, gli occhi chiusi, anzi, gli occhi aperti, azzurri, fissi, vuoti come pietre bagnate, niente sangue, suolo angoli di ossa piegate, solo braccia e gambe che non servono più a fare belle cose, le cose belle che sa fare Giulia.

Giulia. Giulia, Giulia, giulia, giuliagiuliagiugliaGiulia. Io vado con Giulia, lo chiederò a Giulia, sentiamo cosa ne pensa Giulia. Andremo io e Giulia, tu resta qui. No, non preoccuparti, lo farà Giulia. Pensi che potrebbe piacere a Giulia? Lo prendiamo a Giulia, preferisco portare Giulia. Perché lei è Giulia.

Quindi sì, certo, ovvio, sicuro, vuole bene a Giulia, sul serio. Però vorrebbe tanto che fosse morta.

Forse non morta morta, perché dai, andiamo, non potrebbe mai desiderare davvero che Giulia muoia. Ma un pochino sì. Un pochino morta la vuole. Non sa bene con che parte del corpo lo desideri, se col cuore o col cervello o con la pancia, però un pizzichino di lei desidera fare qualcosa di brutto a Giulia ogni volta che la sente nominare. Il che succede spesso.

Giulia non è ancora scesa?, chiede papà a colazione dopo che lei ha detto buongiorno papà, e lei desidera torcere il naso di Giulia tra le dita fino a far sgorgare il sangue dalle narici come un rubinetto aperto.

Ho saputo che Giulia è stata presa per lo stage!, esclama Martina, che è amica sua, sua, non di Giulia, sua, e c’è una nota di ammirazione e di gioia che le fa venire voglia di prendere la pinza dal cassetto e strappare le unghie di Giulia una per una, quelle unghiette rosa ovali simili a conchiglie, con la carne viva e rossa e rugosa e sanguinante sotto.

Giulia aveva ragione, sospira la mamma. Crack, il ginocchio di Giulia si schiaccia sotto il peso del pestacarne. Andiamo a chiamare anche Giulia, cinguettano gli amici e la milza di Giulia esplode. La nonna le dà il colpo di grazia, sventrandola con un: Giulia, sei radiosa in questi giorni, davvero una gioia per gli occhi. Budella di Giulia per tutto il pavimento della cucina.

Okay. Morta morta.

È sempre stato così? Sono sempre stata così? Si sforza di ricorda la prima volta che – forse alle medie? Giulia che le porta via i jeans e li prova e ride e dice sono troppo larghi, guarda quanto sono larghi, e aggancia il bordo con il pollice lo tira all’infuori, e lei vorrebbe che prendesse fuoco con la stoffa che si fonde con la pelle, i capelli che si accartocciano sulla testa in una massa puzzolente.

Ma non è quella la prima volta. Oddio, smettila di frignare, Giulia non fa mai i capricci, perché devi sempre farmi fare queste figure, davanti allo scaffale delle Barbie, la Barbie con i capelli lunghi come Raperonzolo, lunghi come quelli di Giulia, che non piange e la guarda incuriosita dalla sua disperazione, e lei vorrebbe schiacciarle la testa come quella gommosa della bambola, tra il pollice e l’indice, mentre fa fatica a respirare per il pianto, perché tu non piangi?, perché a te non importa?, perché non ti importa che a me non danno mai niente, niente, niente, e la testa si incassa ai lati, gli occhi schizzano fuori dalle orbite, la bocca si apre per il lungo e si chiude come un otto mentre lei schiaccia, schiaccia, schiaccia.

Ma non è quella la prima volta. In piscina, mentre sgambettano con solo il sotto del costume, le pancine protese, i braccioli che scottano per il sole, e Giulia che sa già fare il morto, brava, bravissima, la nostra campionessa, il nostro futuro, e lei che vorrebbe afferrarle i capelli sulla nuca, una grossa manciata, e tirarla sotto il pelo dell’acqua fino a

O forse ancora più indietro, ancora più indietro, quando ancora la massa spugnosa del suo cervello era incapace di trattenere i ricordi, ancora più indietro, sua mamma che si accarezza orgogliosa il pancione gravido, che sussurra parole dolci, che la scaccia dal grembo perché mi pesi, mi schiacci, gioca un po’ da sola, vattene, non ti ho chiamato. Magari già da allora, magari già quell’ammasso di cellule senza sesso, magari prima ancora di capire che esisteva il concetto di morte, prima ancora che la morte esistesse, magari è qualcosa di inevitabile, un punto fisso nel tempo, una costante, che Giulia in ogni declinazione del proprio essere, in ogni singolo istante, prima o poi, per lasciarla respirare, debba

Ma lei vuole bene a Giulia. Giulia è una brava sorella. Giulia è quel genere di sorella che si offre di accompagnarti a fare la spesa, anche se papà le dice ma lasciala andare da sola, sta sempre a casa a far niente, per una volta che puoi riposarti, Giugiù – il sangue che scorre a fiotti dal naso, un fiume denso e incontrollabile – e lei che figurati papà, a me fa piacere, così chiacchieriamo tra sorelle, ma poi mica vero che chiacchierano, perché Giulia ha un nuovo ragazzo che le telefona appena hanno parcheggiato davanti al supermercato e quindi ti spiace cominciare da sola?, arrivo subito.

Il subito dura un'eternità, perché lei fa in tempo a finire di fare la spesa e di uscire in strada e Giulia è dall'altra parte col telefono ancora appiccicato all'orecchio che ride contenta, buttando indietro la testa come fanno nei film. Giulia la vede con la coda dell'occhio, si volta e sorride, sguainando i denti bianchi e dritti da sirena divoratrice di uomini, e alza la mano libera e grida aspetta, aspetta che vengo ad aiutarti con le borse, lo grida per farsi sentire oltre il traffico o per farsi sentire da tutti, per far capire che è lei Giulia, quella che aiuta, quella brava, che arriva in soccorso. Vengo ad aiutarti con le borse, grida, col telefono all'orecchio destro e l'altro braccio sventolante, e lei rallenta con i sacchetti di plastica tesi fino a segnarle la carne delle mani.

Con la coda dell'occhio sinistro vede la macchina arrivare. Non rallenta, non ci sono strisce pedonali, e Giulia sbuca da altre due macchine senza guardarsi intorno, concentrata sull'obiettivo di aiutarla come un predatore senza vista perimetrale. La macchina scivola veloce verso Giulia e lei schiude le labbra, le arriccia e le protende mentre la lingua si appoggia contro il palato e sta per scoccare il suo nome, quel nome, due sillabe, sei lettere, è così semplice, è così facile, così liquido, tu lo sai, lo sai e allora dillo, dillo adesso, adesso prima che

Il muso della macchina impatta contro il fianco di Giulia. Il cellulare schizza in aria, il gomito sbatte contro il cofano, la testa schianta contro il parabrezza e scivola verso l'alto, le gambe si sollevano, l'intero corpo viene caricato sul cofano grigio come un cucchiaio che raccoglie l'ultimo boccone di minestra. Il freno stride come un uccello in pericolo, mentre Giulia rotola sul tettuccio e ricade con un tonfo sul bagagliaio e poi sull'asfalto bollente, la faccia schiacciata per terra, un braccio ripiegato sulla schiena sotto le scapole e i piedi nudi, le scarpe scomparse, il bianco liquido e fisso degli occhi che fa capolino tra le ciocche di capelli.

Giulia. Giulia, bisbiglia. Giulia, piano piano, come quando si svegliava per prima la mattina di Natale. Giulia, sottovoce, come al cinema quando dividevano il secchiello dei popcorn. Giulia, in un sussurro, come quando voleva farle vedere un ragazzo carino per strada. Giulia, come un segreto. Giulia, come un addio.

Vuole bene a Giulia. Che domande. Adesso le riuscirà un po’ meglio.


Come se fosse


di Erica Baldaro
Il racconto è stato pubblicato originariamente qui.




Ricordo che c’era una strada e sulla strada una casa e la casa era una clinica, ma sembrava proprio una casa, perché aveva un comignolo di pietra e i gerani alle finestre e le imposte di legno proprio come le casette da cartolina o quelle nelle palle di vetro con dentro l’acqua e la plastica che sembra neve.
Ricordo che nella clinica che sembrava una casa c’era un salotto che era una reception, ma sembrava proprio un salotto, col caminetto e le poltrone imbottite e una vetrinetta dove mia nonna probabilmente avrebbe disposto brutte porcellane a motivi floreali, mentre lì c’erano in vendita sacchetti di stoffa, quelli coi semini dentro che riscaldi al microonde quando hai i crampi, e avevano anche il nome della clinica ricamato sopra e sembrava un piccolo bazar, ma io non ci avrei comprato il souvenir della volta che ho abortito.

Ricordo che c’erano le infermiere che sembravano davvero infermiere, avevano una divisa azzurra stirata di fresco e mi sorridevano e mi parlavano sempre a voce bassa, forse sembravo un animale selvatico, e avrei voluto dire non mordo, ma sentivo che se avessero smesso di sorridermi mi sarei messa a strillare.
Ricordo che c’era una stanza piena di lettini e i lettini sembravano sdraio allineate sul ponte di una nave da crociera, con lo schienale reclinabile e il poggiapiedi e un cuscino per sostenere il collo e mancava davvero solo un cocktail di benvenuto col vetro umido e appannato dal freddo e pezzi di frutta fresca dentro, invece sul tavolino accanto a me c’erano un bicchiere di plastica pieno d’acqua e una bacinella bassa dello stesso cartone di quello dei contenitori delle uova. Non bevevo dal giorno prima e mi sembrò di ricordarmelo solo in quel momento e la lingua mi si è gonfiata in bocca.

Ricordo che sui lettini c’erano delle bambine. Sembravano donne ma erano bambine, guardavano il soffitto e sembrava che prendessero il sole, chiudevano gli occhi e sembrava che dormissero, ma non c’era niente nei loro corpi che ricordasse l’abbandono del sonno, e poi c’ero io che ero una donna ma sembravo una bambina, perché alla fine quella mattina non mi ero truccata, avevo pensato di farlo all’inizio, avevo pensato mi metto un vestito elegante, mi lego i capelli, mi metto in ordine, perché non volevo essere una donna che sembrava una di quelle donne che fanno quelle cose, ma ero quella donna, avrei fatto quella cosa, sembravo solo me stessa.

Ricordo che l’infermiera mi ha portato una gonna di carta che sembrava un paralume e un paio di ciabattine usa e getta e un bicchiere, piccolo come un tappo, con una pillola dentro e si è accucciata vicino a me, mi ha dato la pillola e mi ha detto questa farà cominciare il travaglio e il travaglio sembrerà un mal di pancia e magari tu avrai paura e ti sembrerà di stare male, ti sembrerà di morire, ma, lo so che non sembra, ma tutto questo finirà presto, non avere paura, e mentre diceva questo sembrava che mi amasse e a me è sembrato di amarla un po’ davvero.

Ricordo la pillola ma non ricordo quando l’ho presa, ricordo il bagno e ricordo di essermi tolta le scarpe e i pantaloni e le mutande ma non sapevo se togliermi anche le calze e mi sembrava la prima volta che ho fatto l’amore, e quando mi sono guardata allo specchio ero sicura che avrei visto qualcosa che assomigliava a un mostro o qualcosa che assomigliava a una bestia, invece sembravo solo io, continuavo a essere me, continuavo a contenermi tutta, anche se mi sembrava di non contenere niente, solo quello che non volevo.

Ricordo che non ricordo niente di cosa è successo dopo però vorrei ricordarmi questo e spero che non sembri una bugia che mentre chiudevo gli occhi e contavo all’indietro da dieci il lettino operatorio mi ha inghiottita e nove sono precipitata all’indietro in un buco stretto dalle pareti morbide e puntate di piccole stelle e otto se allungavo la mano potevo toccarle e coglierle dal cielo come frutti e sette mettermele in tasca pensando che sarebbe stato bello portarle a casa e sei dire a tutti dove le avevo prese senza vergogna, senza paura perché cinque vorrei che non fosse un segreto quattro vorrei non essere in questo buco da sola tre di notte due senza stelle uno.

Ricordo che poi ero in un’altra stanza, su un altro lettino, e questa volta da sola, sotto una coperta gialla che sembrava il giallo dell’uovo sbattuto con lo zucchero che mi faceva mio padre quando dovevo riprendere le forze dopo una brutta influenza, e mi è sembrato di sentirmi meglio.

Ricordo che un’altra infermiera mi ha portato un tè caldo e il latte e i biscotti al burro e sembrava mia madre quando mia madre sembra la madre che vorrei. Mi ha chiesto se stavo bene e io non ho mentito.

Ricordo che l’infermiera mi ha detto che non sembra, ma la vita va avanti.

Ricordo che la vita va avanti, ma non nello stesso modo.

DENTI

di Erica Baldaro





ho contato tutti i denti del mostro
nella speranza di trovare un numero che mi portasse fortuna
quello delle sigarette rimaste nel pacchetto, sette
quello degli accendini che ballano per casa, tre (ma uno non funziona)
quello dei baci che mi hai dato che non fossero nascosti dal sapore del fumo
un dente dopo l’altro
anche quelli cariati
anche quelli imperfetti
il mostro ne ha tanti in bocca
i passi della mia casa alla tua, milleottantatré a falcate piccole
le telefonate che ho ricevuto oggi, due e mezzo (quanto vale sul mercato uno squillo)
le volte che mi hai amata davvero
mi dicono che a mostro donato non si guarda in bocca
e che a questo punto dovrei contare anche la lingua
ma la lingua mi fa paura
dovrei contare tutte le bugie che hai detto
preferisco i denti, preferisco
le volte che ho rivisto il mio film preferito, sei (poche?, è piuttosto lungo)
i giorni che ho passato senza rosicchiarmi le unghie, cento e qualcosa (forse sto mentendo)
le volte che mi hai detto a presto ed è stato presto davvero
c’è una fatina dei denti dei mostri
ogni dente caduto un soldino
potrei contare i soldini
quelli che ho guadagnato oggi, cinquanta
ma preferisco i minuti di una canzone che mi piace, quattro e qualche secondo
il tempo che ho passato ad aspettarti
tutti i tuoi denti sono perfetti
come le parole che ci hai masticato
ma ci sono cose che preferisco non contare
e denti di mostro che non voglio vedere
per questo sorrido poco allo specchio
e a te non sorrido affatto

SASSI

di Erica Baldaro



ci sono comete e meteore e fuochi d’artificio
ho provato ad acchiapparli tutti
con reti e lenzuola e corde e cappi
per trovarmi con un sacco di sassi roventi
che sono solo sassi
e della fatica che faccio che cosa ne resta
cicatrici e lividi, piaghe e ustioni
una crepa nelle ossa, una macchia, una bruciatura da qualche parte
un nodo nei capelli, una ruga d’espressione
un segno, un suono, un grido
sotto questa pioggia di sassi, sotto questa tempesta di fuoco
non sono solo pietra, io
non sono solo sasso
perciò qualcosa resti
qualcosa che qualcuno noti
qualcosa che qualcuno guardi
per l’amor di dio

SOTTOTERRA

di Erica Baldaro



in una tomba poco profonda
in cima al mondo
senza una scala
guardo di sotto
guardo l’abisso
un quadrato di cielo
la terra che mi cade addosso

OCCHI

di Erica Baldaro




Voglio farti esplodere l’intero palazzo
non mi accontento della lampadina del bagno
che sprizza scintille
del neon che sfarfalla in corridoio
della lampada di tua madre sul comodino
la luce che trema, la luce che frizza, si scalda, si spegne, brucia
quella del frigo che ronza e sa di cipolle
non mi accontento della luce azzurrina della televisione che hai lasciato accesa
della spia gialla del tuo caricabatterie
della torcia che tieni nel cassetto che si dibatte come un pesce
o della fiamma del mio accendino troppo bello per prestartelo.
Voglio una luce così intensa
così calda
così tremenda
voglio un fungo atomico
voglio fulmini tra i miei capelli
e i miei capelli tra le tue dita
e la lampadina che esplode, il pavimento che trema, il letto che si spacca
e il materasso che scoppia, scoppia il cuscino, piume e cemento dappertutto
e le fondamenta, le fondamenta, mentre il bianco inghiotte tutto
mentre tutto ci crolla addosso e respiriamo la polvere
e respiriamo i capelli
e respiriamo la luce
e nessuna paura
nessuna paura
o paura sì
di girarsi in un letto rifatto
spegnere la luce
tutta la luce
e andare a dormire.

PELLE

di Erica Baldaro

Lascio sul letto il carapace di me stessa
e ne esco larva di carne
bianca e umida.
Mi trovi così,
nuda e bavosa,
e mi chiedo che cosa uscirebbe dal mio corpo
se ci affondassi i denti,
(sangue o inchiostro o qualcosa di oleoso come il petrolio)
se ci affondassi le mani,
e se nella cassa toracica molle
troveresti una gabbia di ossa contro cui grattare le unghie
o quel pugno fibroso del mio cuore
che riposa in una sacca morbida
a borbottare e a fare le bolle
in qualsiasi cosa mi riempa.
Ho paura delle tue mani
ma più di ogni altra cosa
più delle unghie affilate e dei denti
più degli spigoli dei gomiti e delle ginocchia
più del pelo che ti ricopre
ho paura delle orbite con cui mi guardi
e con cui mi rivesti di corazze che non sono mie
mentre io vorrei che mi spogliassi
che mi pelassi strato dopo strato
e che alla fine
senza più niente fuori
senza più niente attorno
mi dicessi
ecco ti ho vista
ecco sei mia.

Giulia

La sorella maggiore , 1869, di William-Adolphe Bouguereau Giulia di Erica Baldaro Il racconto ha vinto questo concorso qui ...